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martedì 15 dicembre 2015

Evelyn Bencicova | Il concettualismo dell'orrore.

Vi capita mai di rimanere sospesi per un attimo e non rendervi conto di cosa stia succedendo intorno?
Non so voi, ma frequentemente mi ritrovo a vivere queste assurdità , situazioni in cui non ho voglia di dire una singola parola ma sento solo la necessità di rimanere lì , in quel museo , in quella piazza , in quella metro o in quella chiesa a guardare e a pensare.
Mi capita spesso, in modi ed intensità diverse. 
Oggi mi sento particolarmente buono  quindi agli ignoranti dirò una cosa : si chiama Sindrome di Stendhal.
Francamente mi auguro che vi sia capitato almeno una volta di vivere qualcosa del genere ; capita ad un sacco di gente ma soprattutto ai cinesi quando arrivano a Firenze e si rendono conto di quanta bellezza possa contenere una piazza.

Quando ho visto le foto di Evelyne Bencicova è successo qualcosa del genere.



Evelyne ha 22 anni , vive a Bratislava e pagherebbe oro per fare una tranquilla colazione ma la fretta la costringe in una tazza di caffè latte.
Se per voi , il lunedì mattina, andare in università sembra drammatico , per Evelyne è decisamente tragico :
ogni giorno si muove per 80 km da Bratislava a Vienna dove studia fotografia alla Die Angewandte.
In realtà mi chiedo ancora come faccia ad non utilizzare degli stupefacenti a colazione.


I lavori di Evelyne hanno qualcosa di surreale e sublime , un impatto visivo così violento da costringerti a fissare ogni singolo pixel.
I corpi , che si incastrano in entità mostruose, le atmosfere asettiche e i toni neutri attribuiscono agli scatti di E. una sorta di “concettualismo dell’orrore”.
In particolar modo l’autrice ci racconta che un rito essenziale per l’esecuzione dei suoi scatti è la scelta della setting , la quale è individuata non solo in base a parametri tecnici ma anche secondo il grado di energia che emana.

“Mi accorgo di aver scelto il giusto posto solo se ho la sensazione di  iniziare a vedere tutta la storia di fronte a me “

E.  riesce, non esclusivamente attraverso le ambientazioni e i soggetti, a farci  percepire un preciso senso di sterilità e di disagio adoperando delle tonalità neutre , le stesse tonalità che donano alle opere un marcato grado di estraneità , di eternità .
L’autrice ci rivela che molto spesso si trova in disappunto con chi definisce i suoi scatti soltanto come frutto del malessere e della rassegnazione , Evelyne ci fa capire che non è solo un discorso estetico ma è soprattutto un modo di comunicare in maniera anomala , un modo di raccontare utilizzando un  preciso codice simbolico.

“Tendo ad usare simboli e analogie o riferimenti che collegano tutti quei mondi immaginari con la realtà. Il mio lavoro può sembrare fantasia, ma si basa sulla verità”



Credo che definire “slovacca” E. sia irrealisticamente restrittivo , considerando che viaggia molto sia per lavoro che per studio, non ha più una dimora fissa e stabile e passa il suo tempo tra un treno e l’altro , tra Berlino , Londra , Vienna e Bratislava.
In realtà però , Evelyn si sente ancora molto legata alla sua terra  e di questo viscerale amore ne risente tantissimo la sua fotografia , che è frequentemente impregnata di tradizioni popolari dell’est Europa e di estetica socialista.



“Devo anche ammettere che sono diventata più consapevole della mia identità nazionale per i viaggi all'estero e vivendo ad una certa distanza. Solo dopo che si è in grado di vedere la realtà quotidiana in luce diversa si apprezza quello in cui si vive.”


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